La storia dell'Archivio Fotografico Paini

L’archivio di un grande fotografo

Che alcune immagini riescano a restituire la particolare condizione di un’epoca meglio di qualsiasi descrizione, e in modo più penetrante di molti saggi è un’ovvia verità. Quale idea potremmo avere della Parigi degli anni Cinquanta senza il filtro delle fotografie di Henri Cartier Bresson? O della Roma, scanzonata e guascona, del dopoguerra se non fosse stata raffigurata da tante immagini di Tazio Secchiaroli?

La fotografia ha spesso avuto la capacità di trasformare fatti e gesti, anche quelli apparentemente banali che la vita quotidiana ci induce a compiere, in icone di una precisa realtà storica, nell’immagine stessa di un’epoca. La registrazione per immagini della realtà è un’operazione che si sottrae a norme preordinate e richiede una sensibilità d’osservazione di cui, in particolare, sarebbero dotati i grandi fotografi. Qualità certamente appartenuta a Gianni Paini, testimone riconosciuto degli anni del boom economico, da lui documentati in migliaia di fotografie rigorosamente in bianco e nero.

Originario della Valle d’Intelvi, è nello scenario brianteo degli anni Cinquanta che inizia la sua attività di fotografo. Nonostante la sua sia stata un’occupazione poliedrica, in cui le vesti di reporter e pubblicista rivestirono comunque un ruolo centrale, è attraverso la fotografia che l’espressione documentaria di Paini raggiunse certamente il punto più alto. Le sue immagini, spesso realizzate a corredo di un pezzo di cronaca, registrano i risvolti quotidiani della società briantea negli anni della grande crescita economica,

il consolidarsi di nuovi stili di vita, o il definitivo esaurirsi di abitudini arcaiche. Le fotografie di Gianni Paini sono un resoconto prezioso di un universo che in quegli anni rifondava se stesso, registrano con minuziosa attenzione il clima culturale di una città in piena espansione economica, ricca di iniziative imprenditoriali e culturali, aperta, come mai più sarebbe avvenuto, al clima culturale europeo.

è nel corso degli anni Sessanta che il registro del fotografo trova la sua miglior definizione. Di quel periodo coglie innanzitutto le contraddizioni e le lacerazioni di una società in trasformazione, che la provincia riesce solo in parte ad attenuare: l’immagine vitale e moderna che la Brianza desidera mostrare di sé non è che uno degli aspetti di una realtà ben più complessa. Se difatti una parte della società cerca di adeguarsi a modelli di comportamento più progrediti, l’altra, tutt’altro che esigua, conserva ancora abitudini i cui retaggi vanno fatti risalire all'età preindustriale. Angustie e ristrettezze del vivere quotidiano sono alcune delle condizioni di maggior preoccupazione dell’immediato dopoguerra. L’inchiesta parlamentare sulla miseria in Italia, condotta all’inizio degli anni Cinquanta, aveva difatti rivelato che più di due milioni e mezzo di famiglie vivevano ancora in case sovraffollate, in scantinati o in soffitte, condizione peraltro ancora largamente diffusa anche nella regione collinare comasca.

Nonostante questi aspetti contrastanti, nel primo ventennio repubblicano Cantù poteva fregiarsi della qualifica di città italiana del mobile, e nella consapevolezza del ruolo privilegiato che aveva raggiunto attraverso la qualità del suo lavoro, tendeva a indirizzare ogni iniziativa economica e culturale al rafforzamento di quel primato. Eppure, con il passare del tempo gli entusiasmi si mitigarono, le grandi passioni, rinnovatesi dopo anni di mestizia, gradualmente si affievolirono, e ben presto buona parte di ciò che era apparso come originale e grandioso, si ritrovò ridimensionato nella più modesta misura della normalità.

La vita di provincia conservava alcuni di quei tratti perniciosi dell’Italia d’anteguerra, non poi così lontana nel tempo. Gli anni del boom economico dimostravano dunque che il mondo dei piccoli affanni non si era esaurito completamente, ma tracce più o meno evidenti riaffioravano all’interno di un ambiente che della modernità aveva spesso adottato soltanto i suoi tratti esteriori e aleatori. Insieme all’immagine ufficiale, di quell’età Gianni Paini colse gli aspetti più celati e discrepanti: ai successi di una società protesa verso il futuro, ha di contrappasso mostrato anche l’altra realtà, quella meno tangibile, più silenziosa e rassegnata alle sconfitte dell’esistenza. Con le sue fotografie ha rivelato, nell’uno e nell’altro caso, i vezzi della vita nel suo svolgersi quotidiano, con i suoi trionfi e le sue amarezze, l’evaporare di abitudini consolidate, l’incertezza derivante dai nuovi costumi, il fenomeno dell’immigrazione di massa. Proprio l’immagine della solitudine e dell’emarginazione sofferte dagli immigrati, che numerosissimi giungevano in Brianza dalle regioni più povere della Penisola, costituisce uno dei suoi reportage più efficaci. Il racconto per immagini è chiaro, netto, preciso. Le sue fotografie non conoscono l’ambiguità dell’interpretazione perché parlano il linguaggio della realtà colta nel suo compiersi. Di quegli anni egli seppe cogliere le sfumature, le contraddizioni e l’intensità, come soltanto un grande testimone del proprio tempo poteva fare.

Gianni Paini operò a Cantù tra la metà degli anni Cinquanta e la fine degli anni Ottanta. L’attività di fotografo, che attraversò l’intero arco della sua vita, lasciò largo spazio alla mansione di giornalista, che esercitò in un primo tempo sulle colonne del settimanale Luce, successivamente su quelle del quotidiano L’Ordine, per il quale fu redattore a Cantù.

Negli ultimi anni di vita si dedicò al riordino e alla metodica catalogazione del suo archivio fotografico, a cui stava ancora attendendo quando la morte lo colse il 9 settembre 2007.

Dopo la sua scomparsa, la famiglia, con la precisa finalità di renderlo disponibile ai ricercatori, ha fatto dono alla Cassa Rurale di Cantù dell’archivio fotografico di Gianni Paini, costituito da circa venticinquemila negativi. Un paziente lavoro di digitalizzazione delle immagini, protrattosi per oltre un anno ed effettuato con le migliori apparecchiature e tecniche oggi a disposizione, permette ora all’Archivio Paini di essere fruibile dagli studiosi.

di Tiziano Casartelli